Era una nonnina piccola, simile a quella che si trova sempre nelle favole.
Un corpo minuto che spariva negli abiti sempre troppo grandi per lei, ma anche infagottata attirava l’attenzione.
Erano i suoi occhi a colpire, simili a cieli azzurri di primavere ormai dimenticate.
Mi piaceva parlare con lei, ascoltarla mentre le pettinavo i fragili capelli bianchi e sentire i suoi ricordi attraverso il suo respiro.
Mi parlava piano, a volte si fermava e mi guardava con uno sguardo vuoto, allora capivo che era in un mondo dove io non potevo seguirla.
Un mondo fatto di dimenticanze, dove a volte io diventavo sua figlia e tutto era gioia e carezze, altre volte diventavo il suo incubo più atroce e allora erano urla e morsi.
Già l’alzaimer, malattia schifosa, quella che ti spegne giorno dopo giorno, ricordo dopo ricordo, quella che ti ruba l’amore e ti lascia solo la vergogna.
La vergogna dei figli che non capiscono come tu possa diventare un ammasso di carne urlante immersa nella tua stessa urina e giocare con le tue feci.
Nonna Angela se ne andava così, ogni giorno un pò di più, si dimenticava di aver fame e sete, si dimenticava di vivere.
A tratti emergeva da quell’oceano di nulla e allora le parlavo dei suoi figli, come una cantilena ripetavamo i loro nomi, lei mi diceva di loro, di quanto li amasse e di come sentisse la loro mancanza.
Una mancanza che era fatta di silenzi imbarazzanti, di sguardi cupi e colmi d’ansia, dove era finito l’amore?
L’amore e la tenerezza, quella cosa chiamata famiglia, quel cerchio che inizia nella pancia della mamma e che dovrebbe finire con noi figli che aiutiamo i nostri genitori, amandoli e rispettandoli sempre.
Sempre e non fa niente se non ci riconoscono, siamo noi a conoscere loro e tanto basta, non serve scappare o voltarsi dall’altra parte, siamo sempre figli e dopo genitori.